Angela D’Uffizi

Socio Aipi, Interior Designer/Psicologa del lavoro e Psicoterapeuta

Sempre più aziende organizzano i loro uffici con dei grandi “open space” ma poniamoci alcune domande

Spesso l’invenzione dell’open space è attribuita a Robert Propst (Colorado 1921-2000) grafico, artista, insegnante e scultore. In realtà non è proprio così…vediamo perché

L’idea dello “spazio aperto” è nata negli anni ’50 in America con il grande architetto Frank Lloyd Wright (1867-1959) che nel 1906 edificò a Buffalo (stato di New York) il Larkin Administrative Building per la società Larkin (produttrice di saponi). Edificio a cinque piani presentava delle grandi innovazioni poiché era una struttura a prova di incendio e dotato di un impianto di aria condizionata altamente tecnologico. Ma la vera innovazione fu quella ideologica che Wright propose eliminando il concetto di “stanza privata” in favore dell’“open space”.

Da quel momento ci sono state evoluzioni di questo concetto fino ad arrivare a Robert Propst che tra il 1953-1960 condusse una serie di studi sulle persone al lavoro negli uffici per comprendere meglio quali fossero le modalità di svolgimento delle attività e le esigenze pratiche. L’obiettivo era ideare e proporre una linea di arredi specifici. Le sue conclusioni furono che “l’ufficio di oggi è un deserto. Indebolisce la vitalità, blocca il talento, frustra la realizzazione. È la scena quotidiana delle intenzioni non mantenute e dei tentativi falliti”. Così nel 1964 ideò e propose il sistema Action Office, il primo sistema di ufficio open space formato da componenti riconfigurabili.
Dietro a questa proposta di arredo c’era una visione precisa: creare un ambiente che favorisse la costante comunicazione ed eliminasse l’isolamento, maggiore flessibilità e aumento della produttività. Il nome stesso Action Office evocava un’immagine di movimento, comunicazione, condivisione di idee. La privacy poteva essere ottenuta senza la costruzione di muri ma attraverso uno spazio garantito ad ogni dipendente personalizzabile sia in orizzontale (la scrivania) sia in verticale (attaccando fogli utili sulle paretine posticce) e dove tutto fosse a portata di mano.

Gli studi dedicati allo spazio aperto per il lavoro d’ufficio si sono sviluppati parallelamente sia in Europa che nel Nord America.
Infatti sempre negli anni Cinquanta, i consulenti gestionali della società tedesca Quickborner proposero un ufficio caratterizzato da un unico ambiente aperto dove lo spazio veniva suddiviso da grandi piante e altri espedienti, ed era dotato di tappeti e pannelli per assorbire parte dei rumori. Secondo gli ideatori, il nuovo ufficio creava un ambiente meno gerarchico e più amichevole e invitava gli impiegati a condividere le loro idee e aiutarsi tra loro. Gli open space si diffusero rapidamente in Germania e in Regno Unito dalla fine degli anni Sessanta, fino a diventare il modo principale in cui sono organizzati gli uffici contemporanei.

Come spesso accade, anche se queste idee erano buone, la loro applicazione lo fu meno. Con l’abbattimento dei muri interni, molti datori di lavoro iniziarono a dimezzare lo spazio-dipendente, concentrando il doppio delle persone negli stessi locali e risparmiando sugli affitti. Tutto questo a scapito del benessere del lavoratore. Di conseguenza si è arrivati ad accusare l’open space di influire negativamente su produttività e benessere al punto che, poco prima di morire Propst si è scusato con il mondo per la triste metamorfosi che ha subito la sua invenzione.

A questo punto l’attenzione si è spostata sui diretti interessati…cioè su tutte quelle persone che lavorano quotidianamente in un open space. Le ricerche effettuate sono molte e in generale tutte arrivano alle stesse conclusioni. Vi riporto i risultati di un sondaggio fatto da InfoJobs.it, la principale realtà italiana ed europea nel settore del recruiting online.

Su un campione di quasi seicento persone, il 41% si schiera a favore dell’ufficio tradizionale, il 23,6% preferisce l’open space, il 35,3% è invece indifferente alla tipologia di ambiente.

Quelli a favore affermano che:

– è un ambiente vivace e stimolante, grazie al continuo confronto con gli altri

– l’ambiente aperto velocizza la comunicazione con i colleghi

– favorisce la produttività, agendo come deterrente ad attività personali durante l’orario di ufficio

Gli elementi di disturbo sono:

– insorgenza di conflitti: maleducazione dei colleghi, pettegolezzo

– cellulari che squillano e conversazioni telefoniche a voce alta che distraggono

– discussioni su come utilizzare l’aria condizionata

– continuo vociare dei colleghi e continui rumori di sottofondo

– essere costantemente sotto lo sguardo di tutti, con un’importante limitazione della privacy

– costante passaggio di persone tra le scrivanie

– Fastidio per la musica proveniente dalle altre postazioni

E gli scienziati che informazioni ci danno?

Il neuroscienziato Jack Lewis, afferma che il lavoro in open space riduce le prestazioni aziendali del 32 per cento e fa diminuire la produttività dei lavoratori del 15 per cento. Prima responsabile è la distrazione che porta gli impiegati a non focalizzarsi sugli obiettivi. “Gli uffici aperti – spiega Lewis – in teoria sono stati progettati per permettere ai lavoratori di collaborare meglio, muoversi più facilmente e scambiarsi opinioni e soluzioni continuamente. Ma in realtà non funziona così. Se ti stai concentrando su qualcosa ma all’improvviso un telefono suona alle tue spalle e qualcuno comincia a parlare, la tua attenzione si perde e devi ricominciare da capo. Il cervello risponde alle distrazioni continuamente, anche se lì per lì non ce ne rendiamo conto”.

Altro problema è dato dall’ambiente asettico. Craig Knight, psicologo della Exeter University, sostiene l’importanza di permettere ai lavoratori di personalizzare la “postazione”, nella convinzione che ciò favorisca la produttività. “Chi lavora in un ambiente colorato, con quadri e piante, risponde meglio agli input – precisa Lewis – perché si sente più a suo agio, circondato da un contesto umano e confortevole”.

…e ora? Open space SI, open space NO? Come sempre la verità sta nel mezzo.

Come psicologa ritengo che, come in tutte le cose, non esista una soluzione che possa andare bene per tutte le persone e le situazioni. Spesso si parla delle aziende come entità astratte, in realtà le aziende sono fatte da persone. Persone che hanno gusti, esigenze, caratteristiche, percezioni, valori diversi. Laddove c’è diversità ed etereogenità c’è complessità. Alcuni amano lavorare davanti ad un computer ed isolarsi dal contesto, altri preferiscono la relazione e tollerano meglio la vicinanza fisica e psicologica.

Sicuramente l’ambiente aperto stimola una modalità di comunicazione diretta ed informale, favorendo così la condivisione delle informazioni, la collaborazione e il confronto.  Requisiti questi, fondamentali in un’attività di tipo creativo.

Le attività di gruppo vengono favorite da un ambiente aperto per vari motivi: le informazioni sono condivise e uguali per tutti, i rapporti meno gerarchizzati, ogni membro del gruppo è motivato ad incanalare le proprie energie nel lavoro comune, si modifica la percezione stessa del gruppo. Non più insieme di singoli individui bensì organismo unico.

È vero anche che tutto questo si ottiene non solo modificando spazi ed arredi, ma anche lavorando sulla creazione di un clima di fiducia e di serenità. Sviluppare quella che viene definita intelligenza sociale per gestire con efficacia la comunicazione e lo sviluppo delle relazioni: cercare di mediare per risolvere un problema, controllare il volume della propria voce e la suoneria del cellulare, non interrompere e non farsi interrompere nel momento in cui si è concentrati su un compito, rispettare la privacy.

Di contro sicuramente la maggiore quantità di stimoli può incidere sui livelli di attenzione e concentrazione. È certo infatti che un sovraccarico di stimoli e richieste incide sul nostro cervello: il multitasking ci rende meno efficaci ed efficienti e comporta un vero e proprio esaurimento delle funzioni cerebrali. Inoltre, ci sono persone che potrebbero sentirsi intimiditi e quindi inibiti nel “mostrarsi” in ogni momento agli altri.

Come interior designer penso che bisognerebbe considerare l’open space come uno strumento che l’azienda può decidere di usare solo quando è necessario, quando cioè è di reale supporto all’attività che quel team/ufficio/dipartimento svolge. Sarebbe anche utile raggiungere un compromesso tra le vecchie stanze e l’open-space creando sia spazi aperti di condivisione da utilizzare quando necessario, sia spazi dove viene garantita una maggiore privacy e tranquillità. Gli uffici di Google, per esempio, mettono a disposizione dei dipendenti “salottini” per discutere le strategie dell’azienda. I bagni della Pixar invece, su decisione di Steve Jobs, sono collocati lontani dagli uffici in modo tale che per raggiungerli si è obbligati ad incontrare colleghi lontani dal proprio dipartimento e favorendo così le interazioni casuali.

Bibliografia

(www.repubblica.it) “Open space addio è meglio l’ufficio” di Riccardo Staglianò (17 marzo 2006)

(www.repubblica.it) “Open space poco produttivi. Ci sono troppe distrazioni”  di Sara Ficolecci (14 agosto 2011)

(www.ilpost.it) “Contro gli open space” (17 agosto 2012)

(www.sanihelp.it) “Ufficio open space: i pro e contro” di Valeria Leone (28 luglio 2014)

(www.diredonna.i) “Pro e contro dell’ufficio open space” di Loredana Signorelli (22 giugno 2011)

(http://cosahoimparatooggi.com) “Alle origini dell’open space: il Larkin Building” di Dario Villa

(www.tentazionedonna.it) “Lavorare in open space: da sogno a incubo” di Cristina Colantuono (20 giugno 2013)

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